OCCUPAZIONE ILLEGITTIMA E RINUNCIA AL DIRITTO DI PROPRIETA’
Può il proprietario che abbia subito una occupazione illegittima chiamare in giudizio la pubblica amministrazione e chiedere, anziché la restituzione del bene con rimissione in pristino dello stato dei luoghi, il risarcimento del danno per sottrazione di terreno e per l’avvenuta occupazione illegittima?
Ed in sostanza, può il proprietario in caso di occupazione illegittima ad opera della pubblica amministrazione, rinunciare alla proprietà del bene?
Premessa indispensabile è osservare come il nostro sistema legislativo non preveda una generale possibilità di rinuncia alla proprietà in favore dello stato o di altri soggetti privati. Tra i modi di acquisizione della proprietà, infatti, disciplinati dall’art. 922 c.c., non si riscontra l’acquisto della proprietà a mezzo di altrui rinuncia. Unica eccezione appare quella di cui all’art. 1104 c.c che prevede la possibilità del comproprietario di rinunciare alla sua quota di comproprietà in favore degli altri comproprietari.
Parte della dottrina tuttaiva ritiene configurabile un diritto generale alla rinuncia alla proprietà immobiliare sulla scorta di alcuni riferimenti normativi: l’art. 827 c.c. che sancisce che i beni immobili che non siano di proprietà di alcuno spettino allo stato; l’art. 1350 n. 5 c.c. che parrebbe estendere la rinuncia anche alla proprietà dei beni immobili prevedendone l’obbligo di forma scritta, nonché l’art. 2643 n. 5 che prevede l’obbligo di trascrizione dell’atto di rinuncia.
L’istituto della rinuncia alla proprietà dei beni immobili, tuttavia, in via generale non pare unanimamente accolto né in dottrina né in giurisprudenza.
Occorre quindi chiedersi se l’istituto della rinuncia alla proprietà del bene immobile, possa trovare applicazione nell’ambito delle occupazioni illegittime.
In senso favorevole parrebbe esprimersi il Tribunale di Brindisi nella sentenza 1230 del 29/08/2019 il quale afferma: “Nel caso di occupazione usurpativa, in considerazione dell’attività del tutto illegale posta in essere dalla P.A. non si produce alcun effetto traslativo del bene occupato, e pertanto il proprietario può optare per i normali rimedi petitori e possessori a difesa della proprietà oppure chiedere il risarcimento. Tale ultimo istituto implica tuttavia la rinuncia al diritto di proprietà.”
Il giudice Brindisino, quindi, non solo ammette la possibilità della rinuncia alla proprietà del bene illegittimamente occupato, ma addirittura ritiene che tale rinuncia possa derivarsi implicitamente nella proposizione, da parte del proprietario occupato, di una azione meramente risarcitoria e che non preveda la restituzione del bene.
Recisamente contrario alla possibilità di una rinuncia abdicativa alla proprietà del bene occupato, pare invece il Tar di Napoli che nella sentenza 1176 del 4 marzo 2019 afferma: “La rinuncia abdicativa alla proprietà privata non può trovare ingresso nel nostro ordinamento. Infatti, anche a seguito dell’entrata in vigore del T.U. degli Espropri, in assenza della conclusione « fisiologica » del procedimento espropriativo con l’adozione del decreto di esproprio oppure con un accordo di cessione tra l’autorità espropriante e il proprietario del bene, il proprietario di un suolo illegittimamente occupato può trasferire il predetto bene all’Amministrazione con una manifestazione di volontà resa nei modi di legge nell’ambito di un accordo transattivo in cui le parti concordino anche il valore del trasferimento a prescindere dalla quantificazione dell’indennità, secondo i relativi principi contenuti nel T.U. degli espropri. Pertanto, qualora ci sia stata una deviazione patologica dello schema legale, ove sul bene del privato sia stata realizzata un’opera pubblica e le parti non abbiano concluso un accordo traslativo, l’adeguamento della situazione di fatto a quella di diritto può essere disposta solo con l’esercizio del potere previsto dall’art. 42 bis, d.P.R. n. 327 del 2001 e, dunque, mediante l’adozione di un provvedimento — non avente efficacia retroattiva — di acquisizione al patrimonio indisponibile del bene privato utilizzato per la realizzazione dell’opera pubblica. In assenza dell’esercizio del potere previsto dall’art. 42 bis, l’illegittima occupazione di un bene privato, sia pure preordinata alla realizzazione di un’opera pubblica, determina l’obbligo di restituzione nei confronti del proprietario.”
Il collegio afferma chiaramente come, a suo avviso, l’istituto della rinuncia abdicativa non possa entrare a far parte dell’ordinamento giuridico italiano, in quanto evidentemente non normativamente previsto e come, pertanto, davanti ad una occupazione illegittima, in mancanza di un provvedimento di acquisizione sanante, il proprietario occupato possa agire solo per la restituzione del bene con rimissione in pristino dello stato dei luoghi e per il risarcimento del danno patito per l’avvenuta occupazione.
Tuttavia appena due mesi prima, il 18 gennaio 2019 con sentenza n. 460, su tema aveva avuto modo di esprimersi anche il Consiglio di Stato, il quale a differenza dalla corte amministrativa territoriale, aveva ben riconosciuto la possibilità di una rinuncia alla proprietà del bene occupato: “La condotta illecita tenuta dall’Amministrazione pubblica con l’occupazione abusiva di terreno altrui, quale che sia stata la sua forma di manifestazione (vie di fatto, occupazione usurpativa, occupazione acquisitiva), non può comportare l’acquisizione del bene medesimo giacché essa configura un illecito permanente ex art. 2043 c.c.; d’altro canto la cessazione dell’illecito da essa commesso si verifica soltanto nelle ipotesi di: a) restituzione del fondo; b) accordo transattivo; c) rinunzia abdicativa da parte del proprietario implicita nella richiesta di risarcimento del danno per equivalente monetario a fronte della irreversibile trasformazione del fondo; d) compiuta usucapione, nei ristretti limiti individuati dal Consiglio di Stato; e) provvedimento emanato ex art. 42 bis, d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327.”
Pur dovendosi riconosce l’orientamento dominante quindi, in quello espresso dal Consiglio di Stato, tuttavia non paiono censurabili i dubbi espressi da taluna giurisprudenza di merito che si esprime in senso più tradizionale in ragione della mancanza di una figura generale di rinuncia al diritto di proprietà.
L’introduzione della possibilità di rinunciare al bene occupato, infatti, seppure ha sicuramente dei meriti nello sciogliere alcune complesse situazioni in favore del proprietario, tuttavia non può che suscitare alcuni dubbi.
Il merito principale è quello, in fondo, di assicurare uno strumento in più in favore del proprietario. Il proprietario nel silenzio della pubblica amministrazione che ometta di disporre una acquisizione sanante ex art. 42 bis dpr 327/2001, infatti, anziché iniziare un giudizio per la demolizione delle opere e la restituzione dei beni, potrà rinunciare al proprio diritto alla restituzione e chiedere direttamente il risarcimento del danno.
Ciò si risolverebbe, il più delle volte, in un importante risparmio di tempo ed energie. Un giudizio per la riduzione in pristino dello stato dei beni, infatti, assai spesso conduce all’emissione precoce o spesso solo all’esito del giudizio, di un provvedimento di acquisizione sanante da parte della pubblica amministrazione. Provvedimento che il proprietario si trova frequentemente a dover nuovamente impugnare in Corte di Appello onde richiedere la rideterminazione dell’indennità (o meglio del risarcimento) determinato in via unilaterale dalla stessa pubblica amministrazione occupante. Ecco quindi la necessità di affrontare due giudizi consecutivi, spesso lunghi e complessi.
A fronte di tale situazione il proprietario potrebbe quindi adire il tribunale onde rinunciare direttamente al suo diritto restitutorio, al fine di chiedere quindi il risarcimento del danno patito. Un unico giudizio.
Tale possibilità ora aperta al proprietario dalla giurisprudenza, tuttavia, sollecita interrogativi ancora non risolti.
In primo luogo occorre definire la modalità dell’acquisizione della proprietà in favore della pubblica amministrazione. L’atto di rinuncia, espresso all’interno dell’atto processuale introduttivo del giudizio, sicuramente non sarebbe titolo idoneo a garantire alla pubblica amministrazione la possibilità di effettuare la trascrizione della proprietà in proprio favore.
Unico mezzo a ciò utile sarebbe quindi l’emissione ad opera del giudice di una sentenza accertativa/costitutiva del diritto in favore della pubblica amministrazione. Ove però le parti non ne abbiano fatto direttamente richiesta nelle proprie conclusioni, stante il principio della domanda che permea il rito processuale, sarebbe legittimato il giudice all’emissione di una tale pronuncia? Probabilmente no. E pertanto l’effetto rinunciativo sarebbe completo e realizzabile solo ove le parti, attore e convenuto, si ricordassero in atti di avanzare specificamente la domanda di accertamento e costituzione del diritto di proprietà in favore della Pubblica Amministrazione.
Ma in fondo il problema non è tutto qui. Se infatti il giudizio viene introdotto davanti alla giurisdizione amministrativa, come risulta obbligatorio tutte le volte in cui l’illegittima occupazione sia derivata dall’espressione di un potere amministrativo che abbia dato origine ad una valida dichiarazione di pubblica utilità, come potrà il giudice amministrativo, preso atto della rinuncia del proprietario, accertare e costituire il diritto di proprietà in favore della pubblica amministrazione?
Va infatti ricordato come il Tribunale Amministrativo non abbia il potere di accertare, dichiarare e costituire il diritto di proprietà, essendo connotato da una giurisdizione prevalentemente demolitoria nei confronti degli atti amministrativi assuntamente ritenuti illegittimi. Orbene, il riconoscimento della facoltà della rinuncia al diritto di proprietà, potrà conferire alla giurisdizione amministrativa il potere di accertare l’avvenuta traslazione del diritto? E il Conservatore dei registri immobiliari potrà sulla scorta di una tale sentenza, effettuare la trascrizione?
Il problema non pare ancora risolto, ma tuttavia ove si ammetta l’esistenza di tale istituto, si dovrebbe in tale campo necessariamente estendere il potere giudicante del tribunale amministrativo anche all’accertamento e costituzione del diritto. L’alternativa infatti, del tutto implausibile, sarebbe quella di costringere la pubblica amministrazione ad intentare successivamente alla pronuncia amministrativa, un giudizio ordinario di accertamento della proprietà.
Ulteriore elemento che pare interessante affrontare è quello relativo al momento traslativo del diritto di proprietà, ciò in quanto direttamente connesso al momento in cui effettuare la valutazione del danno patito dal proprietario occupato.
Ben evidentemente non può ritenersi che la traslazione della proprietà sia occorsa al momento dell’illegittima occupazione, in quanto altrimenti verrebbe meno la natura di permanenza dell’illecito.
Le alternative allora sono quelle di considerare la traslazione del diritto o al momento dell’atto di rinuncia o al momento dell’emissione della sentenza che tale rinuncia accerti.
Nel primo caso la rinuncia sarebbe in fondo da configurare come mera rinuncia al diritto di richiedere la restituzione del bene e pertanto sarebbe la sentenza ad avere effetto costitutivo del diritto, nel secondo caso, invece, l’atto di rinuncia avrebbe esso stesso l’effetto di effettuare la traslazione del diritto e la sentenza si limiterebbe ad accertare l’evento.
Non paiono esserci ragioni sistematiche per preferire l’una o l’altra ipotesi. E allora pare preferibile fermarsi al tenore letterale della pronuncia già richiamata del Consiglio di Stato n 460/2019 in cui esplicitamente si parla di possibilità del proprietario di effettuare una rinuncia abdicativa al diritto. Sarà pertanto la rinuncia ad effettuare la traslazione del diritto di proprietà che quindi avrà effetto dal momento del deposito dell’atto introduttivo del giudizio che tale rinuncia contempli anche implicitamente.
Da ciò può quindi derivarsi che la stima del danno per privazione del bene dovrà effettuarsi a tale data, ovverosia alla data della rinuncia alla proprietà e quindi a tale data andrà valutato il valore del bene illegittimamente occupato e ora rinunciato. È infatti solo in questo momento che si concretizza il danno dell’espoliazione del bene, analogamente a quanto visto in tema di acquisizione sanante ex art. 42 bis dpr 327/2001, ove il momento della stima del danno è da effettuarsi alla data di emissione del provvedimento.
Conseguentemente andrà poi riconosciuto al proprietario il diritto al risarcimento del danno per illegittima occupazione del bene da calcolarsi dalla data di occupazione alla data di effettuazione della rinuncia.
Anche in tal caso pare richiamabile la giurisprudenza che riconosce la natura in re ipsa del danno da occupazione (Cons. di Stato, 17/05/2019 n. 3428): il proprietario sarà pertanto esentato dalla necessità di provare l’avverarsi di un danno. Il proprietario dovrà viceversa provare il quantum del danno subito. Appare però richiamabile anche in tale caso quella giurisprudenza (Tar Napoli 12/02/2019 n. 774) che ammette una valutazione equitativa del danno, applicando in via analogica il criterio previsto dall’art. 42 bis dpr 327/2001 e quindi quantificando il danno da occupazione nel valore dl 5% annuo, salvo la prova del maggior danno subito.
Nessun problema pare configurabile in tema di prescrizione del diritto: la natura permanente dell’illegittima occupazione viene infatti meno solo con la dichiarazione di rinuncia al bene e quindi solo da tale momento partirebbe il termine prescrizionale quinquennale stante la natura di illecito permanente dell’occupazione. Tuttavia, come visto, siamo già in giudizio e quindi non vi è ragione perché tale termine prescrizionale inizi a decorrere.
Non potrà invece trovare applicazione analogica quanto sancito dell’art. 42 bis in tema di danno extrapatrimoniale: pur essendo infatti sicuramente configurabile la possibilità di dimostrare in giudizio l’esistenza di un danno extrapatrimoniale derivante dall’illegittima occupazione, pur tuttavia non pare possibile in tale ambito una valutazione equitativa e quindi l’applicazione in via analogica delle percentuali del 10% o del 20% previste in tema di acquisizione sanante.
Il danno extrapatrimoniale non pare infatti una conseguenza necessaria dell’intervenuta illegittima occupazione e pertanto non pare possibile considerare il danno come sussistente in re ipsa: spetterà quindi al proprietario che lo richieda dimostrare sia l’esistenza effettiva di un danno extrapatrimoniale, sia di fornire le prove volte a quantificare detto danno.